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LA CITTÀ COME LUOGO DI DISPIEGAMENTO DELL’ESSERE UMANO


L’uomo odierno, o almeno gli individui che vivono in paesi industrializzati, ha come ambiente e spazio per eccellenza la città e la metropoli. Questo fenomeno di urbanizzazione si comprende meglio leggendo i dati dell’Onu, i quali affermano che le città, seppur comprendendo il 2% della superfice terrestre, consumano il 60% dell’elettricità e delle risorse globali e ospitano il 55% della popolazione mondiale. Questi dati rendono al meglio la centralità e gli effetti della città sull’uomo e l’ecosistema.

Il seguente articolo intende focalizzarsi sulla relazione tra l’essere umano e l’ambiente urbano, andando ad analizzare l’evoluzione del dispositivo città attraverso tre casi storici emblematici: la polis greca, la città rinascimentale e le odierne metropoli; soffermandosi in particolare sui cambiamenti spaziali, sociali e antropologici all’interno di questi modelli, e mostrando come l’uomo abbia pensato continuamente il suo habitat prediletto nel corso nel tempo.


Città, Civitas, Urbs


Inizierei con il soffermarci su questa definizione che l’urbanista e storico dell’architettura Spiro Kostof offre della città: «city is a point of maximum concentration for the power and culture of a community» (Kostof 1991). Quello che lo storico qui vuole sottolineare è come la città sia il centro dell’attività umana, dell’interazione dell’uomo con i suoi simili e ne rispecchi al massimo i rapporti di potere sociale, politici ed economici; di fatto la forma e la struttura urbana riflettono la società e la storia dei suoi abitanti. Si pensi come dopo la caduta dell’Impero Romano le chiese cristiane abbiano occupato il centro cittadino usurpando il foro. Kostof prosegue la sua dissertazione argomentando come la città sia inserita in una rete connessa con altri centri e con il territorio circostante, e di come essa presenti al suo interno una classificazione, divisone e specializzazione del lavoro umano inevitabile per il suo mantenimento e ordinamento. Ma il fattore costituente della città sono gli individui, per questo Kostof non esita a definire le città «as organisms» (Kostof 1991), entità viventi plasmate dalla volontà umana.



Tale centralità della città e il suo inscindibile legame con l’uomo si mostra esplicitamente, almeno per noi Occidentali, nel suo etimo, cioè nel termine civitas. Il termine latino per definire le città vuol dire cittadino o cittadinanza, rinviando dunque a gli abitanti cittadini, distinguendo invece l’urbs, l’urbe, cioè l’insieme degli edifici che compongono la città. Se urbs denota la forma e grandezza della città, Roma fu l’urbe per antonomasia, civitas invece ne è la sostanza, ciò che rende la città tale. Ma come si sa, la cultura romana è debitrice di quella greca e lo stesso termina civitas non è che l’adattamento latino del termine polis. Infatti, polis, la città autonoma,deriva dal termine politeia cioè la totalità della cittadinanza riunita sotto le stesse leggi, e da cui discende la parola politica, cioè l’amministrazione della città e dei suoi cittadini. Dunque, città, popolazione e politica sono tre termini concatenati che si rimandano a vicenda, marcando la totale identità tra l’amministrazione pubblica e privata, poiché la città non è altro che l’insieme dei suoi cittadini.


La polis come luogo della giustizia


Il primo caso di città e di sua formulazione che andremo a presentare è quello dell’antica polis greca. Come detto, per i greci classici la polis non era solamente il luogo dove risiedere, ma piuttosto una seconda madre. La polis, come la stessa Roma,nacque per quel fenomeno detto sinecismo, cioè l’unione di più comunità in una sola per il controllo di un territorio, portando alla formazione della città come luogo culturale e di identità; infatti era comune per le città antiche avere un eroe fondatore quale simbolo delle virtù e della storia cittadina, ad esempio Ercole per Ercolano. Ma la città doveva essere organizzata per permettere ai liberi cittadini di prendere parte alla vita politica di essa, per questo in Grecia si vide apparire per la prima volta in Occidente, per opera di Ippodamo da Mileto, la griglia reticolare (Kostof 1991). Il reticolo ortogonale permise ai greci di modellare lo spazio secondo i loro codici culturali, distribuendolo secondo la classe e suddividendo la città in quartieri ognuno specializzato in specifiche mansioni, dal porto, ai macelli fino al cimitero. Questa nuova forma urbana permise di esaltare il centro della città l’agorà, la piazza che racchiudeva l’attività politica, il cuore della polis.

Dunque, per i greci la loro città era tutto e la sua corretta organizzazione fondamentale. Questo spinse Platone a scrivere uno dei libri caposaldi del pensiero Occidentale, la Repubblica. Il celebre dialogo inizia con la questione su cosa sia la giustizia, portando Socrate e i suoi interlocutori ad indagare il giusto nell’uomo, concludendo che per trovare tale virtù bisogna investigare i caratteri più grandi dell’uomo. Così Platone, per bocca di Socrate, mostra come la giustizia sia un affare pubblico, un bene per tutti, poiché «la giustizia riguarda un solo uomo o una città intera?» (Platone 2017). Dunque, inizia così il discorso sulla città giusta, Kallipolis, siccome solamente in tale città risiede l’uomo retto e felice, ribadendo così l’isomorfismo tra l’individuo e la polis. Difatti, per Platone la città è indispensabile per la conservazione dell’uomo, poiché esso è incapace di sopravvivere senza una comunità di reciproco aiuto.

Se i primi due libri della Repubblica sono dedicati alla questione del giusto, i restanti si concentrano su come si fondi la città giusta, elencando attività, discipline, comportamenti e alimenti propri di questa città. L’obiettivo del testo è raggiungere la città retta e felice, ma secondo il filosofo greco solamente una cosa è necessaria per tale scopo: nella città ogni individuo deve compiere unicamente il lavoro per cui è portato, giacché la città è giusta se si ha «l’attitudine di ogni cittadino a svolgere il proprio ruolo» (Platone 2017). La tesi fondamentale della giustizia è la divisione dei compiti e dei mestieri secondo le proprie predisposizioni, raggiungendo così una città unità, coesa, dove ognuno contribuisce al benessere dell’altro e ne dipende direttamente. Ciò ha come esito le tesi più radicali del dialogo: l’uguaglianza di genere, siccome non si hanno differenze sostanziali all’interno della comunità, e la comunanza dei beni, poiché tutto deve essere di tutti cosicché nessuno brami di diventare superiore, permettendo così infine la Repubblica, la politeia, cioè l’amministrazione giusta del bene comune. Dunque, Kallipolis è giusta, ordinata ed armoniosa, e al suo interno non si hanno dissenso o differenze poiché tutto è omologato e funzionale al benessere cittadino, l’ordine interno non può e non si deve infrangere essendo il bene del singolo quello della comunità. Platone, in antitesi a Kallipolis, descrive anche la città infiammata, malata, rigonfia nel lusso e nei piaceri, dove al suo interno le differenze e divisioni tra i cittadini sono marcate e non sia ha una, ma molteplici città.

Concludendo, l’utopia platonica ci ricorda l’importanza del vivere in comunità ed offre molti spunti di critica alle odierne città, si pensi alle divisioni plutocratiche tra quartieri e alle molte periferie ridotte a ghetti; ma d’altro canto essa può apparire come una distopia, non di stampo orwelliana ma piuttosto come quella descritta da Huxley in Brave New World, una società senza dissenso in cui gli uomini accettano e sono felici della propria gabbia dorata, in cui il singolo è soggiogato dal collettivo e un “bene” trascendentale imposto è il fine di tutto.


La città cosmica rinascimentale


Facendo un salto nei millenni, l’importanza della polis e l’influenza della lezione platonica non scemarono. Con la riscoperta dei classici greco-romani ad opera degli umanisti europei del XV secolo, gli ideali di armonia e perfezione divennero le linee guida della cultura occidentale, spronando le scoperte tecniche e scientifiche di quei secoli. La stessa concezione della città mutò profondamente in questo periodo, nei centri urbani si fece preponderante la presenza di edifici commerciali e abitativi, per via dell’ascesa del nuovo ceto borghese-mercantile cittadino, e la città divenne una fucina di mestieri, arti e di idee. Però il pensiero di una città ideale non smise di circolare, anzi fu proprio il rinascimento a consegnarci le rappresentazioni e i principi tipici di tale concezione, primo fra tutti quello di una città in simbiosi con la natura e il mondo celeste, basata su leggi matematiche e geometriche, la cui pianta è un poligono complesso o una circonferenza. Questi furono i caratteri estetici-architettonici propri del rinascimento europeo, che diedero luogo alla corrente del manierismo, paradigma indiscusso dell’epoca (Kostof 1991).

Una delle massime espressioni di città ideale rinascimentale è quella pensata dal filosofo italiano Tommaso Campanella, nella sua opera La città del Sole dei primi del 1600. Quella descritta nel dialogo del frate domenicano è una repubblica neoplatonica, fusa con idee tipiche del tardo rinascimento. Campanella descrive minuziosamente la città del Sole, di come essa abbia una pianta circolare e sia suddivisa in sette quartieri a loro volta concentrici, fino al centro cittadino dove si erge il tempio a tholos del Sapere solare.



Quella descritta è una teocrazia, dove non si esalta un dio specifico ma la pura conoscenza, e tutto è organizzato in base a gli astri. Infatti, i sette quartieri sono i sette giorni della settimana, e a ognuno corrisponde una delle sette virtù, uno dei sette pianeti (allora conosciuti) e una delle sette conoscenze. Astronomia e astrologia scandiscono i ritmi cittadini, dai pasti al lavoro fino alla procreazione. La città è retta da tre magistrati, Potestà, Sapienza e Amore, le virtù cardine, e dal supremo magistrato, il Metafisico (Campanella 1997). Ma ogni cittadino è maestro in una sua specifica arte e conoscenza, pur sapendo svolgere al meglio ogni mestiere e cimentandosi in ogni svago e diletto, dal tiro con l’archibugio, alla caccia fino al suono del liuto. Come i loro corrispettivi greci della repubblica platonica, i solari condividono l’assenza di proprietà e di leggi, giacché essi sono governati unicamente dalla virtù, l’unico bene che è desiderato, e anche i solari sono tutti eguali tra di loro senza distinzione di sesso o età. Quella di Campanella è la città nella quale l’uomo ricerca e inventa nuova conoscenza senza alcun fine e scopo, in cui bisogni e capacità umane coincidono alla perfezione, essa è la città armoniosa per eccellenza, dove l’ordine cosmico, terrestre e umano sono riuniti in uno solo, quello cittadino.

La città solare fu la risposta di Campanella al mondo che lo circondava, in cui i pensatori erano taciuti o arsi vivi, la società divisa in base al ceto di nascita, e ricchezza e potere erano gli unici fini perseguiti. Però anche dietro la società campanellina irradiata dal sole si celano delle ombre, delle ombre che calano sullo spirito e la libertà dell’uomo, poiché il cittadino solare è veramente libero o è unicamente determinato da gli astri celesti e dall’ordine sociale? Guardando più attentamente, la città del Sole appare come un grande carillon, nel quale ogni figura è vincolata ad un meccanismo preciso e tutto è scandito dal ritmo della medesima melodia, continuando così a ripetersi eternamente.


3-la metropoli, tra individualismo e potere sovrano


Ora non ci resta che soffermarci sull’ultima forma di citta, la metropoli. La metropoli designa uno spazio urbano di notevoli dimensioni e quando si pensa ad essa non può che venirci in mente la massa di persone, la frenesia economica e la giungla di edifici. Nei fatti, la metropoli è l’esaltazione ed il superamento stesso della città, sicuramente lo è della polis greca o della città ideale rinascimentale. La metropoli è la totale manifestazione dell’odierno modello capitalistico e rispetto alle precedenti conformazioni cittadine essa presenta delle peculiarità proprie. Primo fra tutto l’affermazione del privato come soggetto primario, sia per l’importanza data al singolo cittadino, sia per la privatizzazione urbana attuata da parte di imprese o enti. Ciò si evince dalla creazione di un nuovo centro cittadino composto dalle “main streets”, le vie commerciali, o il “down town”, il centro finanziario amministrativo. Questo porta alla diminuzione dello spazio pubblico in comune, ridotto solamente più a funzione estetica spesso sovvenzionato da enti privati. Conseguenzialmente si ha una razionalizzazione del territorio urbano, ottimizzato al meglio per massimizzare i profitti. Ciò ha come esito uno sviluppo spaziale non più orizzontale ma verticale delle città, e conseguenzialmente la comparsa del simbolo della metropoli, il grattacielo. Infatti, nel grattacielo è cementificato l’essenza stessa del capitalismo, dall’esaltazione dello sviluppo tecnico alla glorificazione del soggetto privato che l’ha costruito (Kostof 1991). Dunque, la metropoli con le sue costruzioni è il simbolo dell’uomo moderno che si sostituisce alla natura.

Al cambio di paradigma urbanistico corrispondono inevitabilmente delle variazioni antropologiche e sociali. La metropoli con il suo avanzamento continuo non è altro che un acceleratore, sia politico ed economico sia di tensioni e disuguaglianze, essa si presenta come un tutto indifferenziato al cui interno però si trovano delle forme di resistenza ed opposizioni. Questi temi sono affrontati da Georg Simmel nel suo breve ma tagliente saggio dei primi del ‘900, Le metropoli e la vita dello spirito. Secondo il filosofo tedesco nelle metropoli moderne si consuma lo scontro con il soggetto e la modernità capitalistica, cioè «la resistenza del soggetto a venir livellato e dissolto all’interno di un meccanismo tecnico-sociale» (Simmel 2012), di massificazione e assoggettamento. Per Simmel, l’uomo metropolitano è costantemente investito da stimoli che lo circondano, dalle relazioni interpersonali al consumo di beni, portandolo ad una forma di difesa data dall’utilizzo dell’intelletto, poiché per poter gestire la moltitudine di input sensoriali e sociali, l’uomo deve categorizzarli e razionalizzarli, altrimenti verrebbe schiacciato da essi. Ciò conduce alla perdita del lato emotivo della relazione tra soggetti, tutto deve essere mediato dall’intelletto a-personale e a-sentimentale, tutto si riduce ad un valore di scambio neutro e ponderato. Il carattere dell’uomo metropolitano è il “blasé”, l’indifferenza, cioè «il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti» (Simmel 2012), tutto è grigio, tutto è svalutato. Simmel continua affermando che anche quella presunta libertà che si pensa di ottenere nella grande città è puramente illusoria, poiché anche se l’uomo metropolitano è libero dalle bassezze e dalla chiusura mentale della piccola comunità, questo non si traduce in un benessere della sua vita affettiva metropolitana. Il risultato ultimo della metropoli è il dominio dell’oggettivo sul soggettivo, la perdita di sé e la cristallizzazione dello spirito, portando come estrema conseguenza un individualismo di massa.



Ma oltre alle conseguenze antropologiche e sociali, la metropoli è anzitutto un dispositivo di sovranità, di automatizzazione e individuazione del potere. La metropoli è uno strumento biopolitico di controllo, che si basa sull’esclusione e la divisione degli individui che la compongono, così da poter mantenere una società pura e disciplinata (Foucault 2014). Questo poiché la metropoli è una pluralità molteplice di soggetti, dove non sia ha un’unità politica, comportando la necessita di un controllo diretto da parte della sovranità per evitare un’implosione sociale. Questo porta alla creazione di zone specifiche di sospensione della legge, si pensi alle bailleurs parigine, per il suo stesso mantenimento, facendo dello stato di eccezione la norma e la giustificazione stessa della metropoli, la cui essenza «consiste nella materializzazione dello stato di eccezione e nella conseguente creazione in cui la nuda vita e la norma entrano in una soglia di indistinzione» (Agamben 2005). Tali apparati del potere sono necessari per contenere l’ingovernabilità insita nella metropoli, essendo essa un contenitore per il confronto di idee critiche ai suoi paradigmi e un luogo di ritrovo di oppositori alla sovranità stessa. Tale elemento di ingovernabilità è il punto di fuga da ricercare all’interno della struttura metropolitana, per poter portare all’estremo l’accelerazione autodistruttiva insita nel dispositivo.

Di Alessandro Balbo



BIBLIOGRAFIA


Kostof, 1991, The city shaped, Bulfinch press book little, Brown and company, London.

Platone, 2017, La Repubblica, Biblioteca universale Rizzoli, Milano.

Campanella, 1997, La città del Sole, Economica Laterza, Bari.

Simmel, 2012, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando editore, Roma.

Foucault, 2014, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino.

Agamben, 2005, Homo sacer, Einaudi, Torino.





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