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  • Luca Giardino

RETROMANIA. DAYS OF FUTURE PASSED. CINEMA, HAUNTOLOGIE E LE OMBRE DEL TEMPO



"We can put everything we know together, he realized, but it doesn’t tell us anything, except that something is wrong. And we knew that to start with. The clues we are getting don’t give us a solution; they only show us how far-reaching the wrongness is."

- Philip K. Dick, Time Out of Joint.



Una delle domande a cui ci si trova rispondere più frequentemente è: “se avessi una macchina del tempo, quale epoca ti piacerebbe visitare?”. Chi risponde, spesso, comincia ad inventarsi una fantomatica vita alla corte di Gatsby negli anni Venti, oppure afferma che se potesse tornare indietro assisterebbe a quasi tutti i concerti dei propri artisti preferiti nei loro tempi d’oro.

Proviamo ad immaginarci, con la stessa tecnica, la vita di un ragazzo adolescente degli anni Sessanta in Florida: il padre, molto probabilmente, è un soldato dell’esercito americano, facciamo finta che sia un soldato della marina in missione. La madre conduce una vita casalinga, ritrovandosi da sola ad accudire i figli in una perfetta casa di polistirolo. La paura dello scoppio di un altro disastro nucleare è molto alta e per il ragazzo e il suo fratellino non rimane che sfogarsi in un modo solo: andare al cinema per ingozzarsi di b-movies su mostri e alieni creati da uno squattrinato produttore.

Questo è lo scheletro narrativo del film di Joe Dante, Matinee, del 1993. Non un grande successo al botteghino ma molto interessante per quanto riguarda la rappresentazione – seppure fortemente idealizzata e romanzata – del forte impatto dei film di fantascienza sulla popolazione americana del secondo dopoguerra.

La fantascienza anni Cinquanta possiede un vero e proprio marchio stilistico che le permette di essere apprezzata anche a distanza di decenni; spesso certi film vengono “ripescati” da cinefili incalliti, appassionati del genere o anche da studiosi per analizzare tutte le sfumature politiche e psicologiche del genere. I film sci-fi degli anni Cinquanta (assieme ai cosiddetti monster movies) rappresentavano da una parte un crogiolo di fobie e sublimazione di desideri perversi e proibiti, dall’altra potevano essere visti come un banco di prova, un laboratorio in cui sperimentare varie idee su futuri possibili e lasciare correre liberamente l’immaginazione. Forbidden Planet (1956) è uno degli esempi più classici: primo film ad avere una colonna sonora interamente elettronica e pellicola che consacra la fantascienza come un genere redditizio anche da un punto di vista commerciale.


Facciamo a questo punto un balzo in avanti e atterriamo negli anni Ottanta. Il cinema in questo periodo vede l’ascesa di una delle saghe fantascientifiche più guardate e idolatrate di tutti i tempi: Star Wars. Essa viene generalmente intesa come una piccola rivoluzione nel campo della fantascienza dato che gli anni dello sci-fi “politico” tipico degli anni Settanta erano ormai acqua passata e il pubblico cercava prodotti meno impegnativi. Da un punto di vista estetico, però, Guerre Stellari pone dei problemi che spesso vengono oscurati in favore di una ricerca sociologica del “fenomeno Star Wars”. La serie di Lucas infatti rappresenta, secondo lo studioso Fredric Jameson, uno dei capisaldi del cinema postmoderno, il quale vi individua, grazie a riflessioni sorprendentemente anticipatorie, un certo anacronismo di fondo:

«Lungi dall’essere un’inutile satira di forme ormai scomparse, Star Wars soddisfa un profondo (represso?) desiderio di sperimentare nuove forme: è un oggetto complesso di cui a un primo livello bambini e adolescenti possono godere in modo convenzionale, e che nel pubblico adulto può invece gratificare un desiderio nostalgico di tornare a quel periodo lontano e infantile, rivivendone ancora una volta i vecchi e bizzarri artefatti estetici». (Jameson, 1998)

Star Wars possiede dunque alcuni dei caratteri principali dell’opera postmoderna, a partire dalla forma pastiche che ricicla i vecchi codici del cinema fantascientifico anni Cinquanta e li trasporta nel presente mascherando la propria (finta) innovazione mettendo la tecnologia al servizio di forme narrativamente arcaiche.

Non è tanto il concetto di nostalgia di una vecchia struttura estetico-simbolica che ci interessa in questo momento (elemento su cui torneremo più tardi), ma è proprio l’attualità di questo anacronismo postmoderno da cui i prodotti culturali degli ultimi vent’anni sembrano essere posseduti. Una costante sensazione di trovarsi intrappolati in un eterno Novecento con schermi ad alta risoluzione e la mancata osservazione, da parte del soggetto contemporaneo, di assistere alla nascita di genuine e innovative rappresentazioni del futuro. Questo inquietante presente a-temporale e a-storico presenta un forte legame con una dimensione politica inscindibile da una «cultura che sembra abbia perso la capacità di cogliere e articolare il presente. O forse […] sentiamo che ormai non esiste più nessun presente da cogliere e articolare». (Fisher, 2019)

Questo saggio non vuole assolutamente porsi l’obiettivo di trovare una soluzione alla complessa problematica dell’impasse culturale postmoderno, o addirittura di analizzare quest’ultimo in tutte le sue sfaccettature. In questa sede si propongono alcune riflessioni sul concetto di Hauntologie a partire da un approccio specificatamente rivolto al mondo del cinema e alle sue conseguenze socioculturali e politiche.

1. Hauntologie e gli spettri del passato. Il caso Hitchcock.


Tutto e subito. Il realismo capitalista pare aver raggelato il tempo in questi due termini assediando il mondo con istanze fortemente de-erotizzanti da un punto di vista culturale. La fluidità e l’intensità della cultura lavorativa tardocapitalista, la dimensione smart del lavoro, l’oscillazione tra precarietà e incertezza stringe le maglie del futuro. La fantasia è rimasta a corto di tempo, così come le nostre certezze di un possibile avvenire.

Secondo Mark Fisher, a causa di questa condizione, abbiamo raggiunto un’impasse culturale, ovvero l’impossibilità di concepire nuovi futuri e nuovi mondi. Il neoliberismo richiede soluzioni immediate privilegiando la ripetizione di patterns già stancamente accettati e riproposti all’infinito creando dunque un loop di revivalismo culturale ingabbiato da forme che strutturalmente impediscono l’evasione. Siamo quindi di fronte ad un passato spettrale che piomba nella nostra vita e che perseguita i nostri “futuri”; l’immaginazione si trova costretta a riassorbire forme del passato che si manifestano nei prodotti culturali e sottolineano una tendenza a rivivere vecchie anticipazioni del futuro piuttosto che ricrearle.


Che cosa c’entra, quindi, l’hauntologia e che rapporto ha con il cinema? Bisogna prima di tutto spendere qualche parola sulla sua origine.

Hauntologie è un termine coniato da Jacques Derrida nel suo libro Spettri di Marx (1993) ed è frutto, come gli altri termini coniati dal filosofo francese, di un gioco linguistico tra concetti: il termine condensa visibilmente il verbo inglese to haunt (“infestare”, “ossessionare”) e ontologia ossia lo studio di ciò che può essere detto esistere. La nozione di hauntologia si riferisce al modo in cui noi non possiamo venire a conoscenza delle cose nella loro esistenza puramente positiva e presente: ogni cosa è conoscibile solo se messa in relazione con ciò che la precede (non è più) e con ciò che viene dopo (non ancora). Secondo Martin Hägglund «Derrida vuole formulare un “hauntologia” generale, in contrasto con l’“ontologia” tradizionale che pensa in termini di presenza identica a sé stessa», e quindi dotare l’hauntolgie di una forza virtuale in cui lo «spettro evocato non va inteso come entità soprannaturale, ma come ciò che agisce senza essere (fisicamente) presente». (Hägglund, 2008)

Questa nozione si dimostra estremamente attuale se ci riferiamo al mondo delle arti e della produzione culturale. Il passato infesta, per forza di cose, un eterno presente incagliato tra la ripetitività e l’insoddisfazione della vita tardo capitalistica.

Quando si parla di cinema si intende una forma d’arte già intrinsecamente hauntologica in quanto si parla sempre di ombre e fantasmi di mondi o epoche lontane che ossessionano gli schermi del presente. Si possono comunque individuare due tipi di approccio hauntologico alla settima arte: il primo riguarda la trasposizione degli spettri da un punto di vista tematico e diegetico, ovvero come il cinema risulti essere un mezzo privilegiato per rappresentare il tema dell’irruzione di un passato infelice (o insoddisfatto) in un presente apparentemente normale. Il secondo, decisamente più attuale, consiste nella totale adozione di forme narrative e rappresentative del passato da parte del filmico, cioè la normalizzazione di schemi già assimilati in passato reiterati costantemente nella produzione revivalistica e “nostalgica” dei prodotti culturali di massa.

Concentriamoci ora sul primo punto osservando più da vicino Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock.

Il film ha a che fare sicuramente con una dimensione spettrale, un ritorno di spiriti del passato che vogliono irrompere nel presente; l’elemento centrale, però, è la paradossale assenza di esseri soprannaturali, gli spettri che i protagonisti devono affrontare sono presenze reali o, per usare le parole di Fisher, “presenze del Reale”. In Vertigo troviamo numerosi riferimenti al mondo degli spettri ma la vera qualità hauntologica del film va ricercata nel trauma del lutto. La (presunta) perdita di Madeleine (Kim Novak) da parte del detective Scottie (James Stewart) lo fa cadere in depressione poiché divorato dai sensi di colpa; nonostante la sua condizione, Scottie incontrerà Judy, una donna sorprendentemente identica a Madeleine – scoprendo in seguito essere la donna che Scottie pensava fosse morta – che provocherà un shock così forte nell’uomo da manifestare ciò che lo stesso Hitchcock individua come una perversa forma di necrofilia nei confronti di un corpo vivo. Il lutto, ovvero il lento e doloroso allontanamento della libido dall’oggetto perso, sembra non essere soddisfatto totalmente nel film dal momento che Scottie, attraverso l’incontro con Judy, ristabilisce una fragile connessione tra la libido e ciò che è scomparso permettendo all’uomo di materializzare nuovamente le proprie fantasie e indirizzarle verso uno spettro tutt’altro che fantasmatico; l’intrusione di Judy nella realtà di Scottie è un evento scioccante per il detective che fa crollare la sua nozione di Reale facendogli perdere ogni punto di riferimento. In questo caso è possibile notare come l’haunting sia, a tutti gli effetti, un lutto mancato che consiste nel «rifiuto di rinunciare allo spettro oppure […] il rifiuto dello spettro di rinunciare a noi». (Fisher, 2019)


2. Malinconia al neon e revival anni 80. il caso di Sapphire and Steel e Community.


Dopo aver brevemente esaminato il caso Vertigo, passiamo ad esplorare il secondo punto dell’approccio hauntologico al cinema: ovvero parliamo della grande operazione acquisitiva da parte strutture cinematografiche postmoderne del passato. In particolar modo ci concentreremo sull’aspetto del revival anni Ottanta e le sue implicazioni socioculturali.



Questo preciso periodo del Novecento sembra non essere mai passato realmente. La vittoria del neoliberismo sembra aver messo un punto alla dimensione lineare della storia, uno specchio che riflette all’infinito i nostri traguardi costringendoci a voltare la testa all’indietro, ad osservare il riflesso di quello che è stato. La cultura di massa sembra aver colto perfettamente questa condizione operando sia da un punto di vista ingenuamente imitativo, sia attraverso un – celato o meno - distanziamento critico.

Ovviamente il cinema è solo uno dei tanti tasselli che compongono questo malinconico mosaico di opere passate: per esempio la musica vede la nascita del genere Vaporwave intorno al 2011 e le arti grafiche adotteranno un’estetica simile creando opere di collage che racchiudono una distorsione nostalgica di futuri perduti, assemblando vecchie icone anni Ottanta.

L’industria cinematografica procede ovviamente di pari passo sfornando costantemente un numero incredibile di film – e prodotti televisivi – venduti in modo esplicito come prodotti “nostalgici”: pensiamo per esempio a Stranger Things (2016 - in produzione) al sequel di Blade Runner del 2017, alla commedia Pixels (2015), di Chris Columbus, che vede una New York invasa dai protagonisti dei videogiochi anni Ottanta, così come Ready Player One (2018), diretto da Steven Spielberg, che già dalla locandina contiene numerosi riferimenti a film di culto dell’epoca.

Quest’ultimo, in particolare, propone un’interessante riflessione meta-cinematografica sulle potenzialità del virtuale e risulta un ottimo caso di studi per indagare la dimensione revivalistica contemporanea. I due casi che vorrei affrontare, però, sono due prodotti televisivi: uno è Sapphire and Steel, serie fantascientifica britannica di inizi anni Ottanta e l’altra è Community, una sitcom americana prodotta tra il 2009 e il 2015.

Ci sono due episodi di queste due serie che - prese le dovute distanze - risultano simili per certi aspetti: mi riferisco all’episodio conclusivo della serie inglese e al quarto episodio della seconda stagione di Community intitolato Basic Rocket Science.


L’episodio finale di Sapphire and steel si conclude con l’ultima missione dei due protagonisti che, dopo il susseguirsi di strani avvenimenti, entrano in un bar/diner in pieno stile anni Quaranta. Ogni cosa ricorda quel periodo, dalla musica all’arredamento. Accanto ai protagonisti è seduta una coppia (di spettri) alla quale Steel chiede se uno di loro può dirgli in che anno si trovano. Dopo la rivelazione, i due protagonisti presi dal panico, capiscono che quel bar è una trappola che li imprigiona in un tempo sbagliato e cercano in tutti i modi di fuggire. Quel che gli aspetta, però, è terrificante dato che, scostata la tenda di una finestra, si ritrovano attorniati dal vuoto del cosmo. Il bar è dunque una specie di non-luogo congelato nel tempo che fluttua nella vastità dell’universo.

Questo episodio ha attirato l’attenzione di Mark Fisher, il quale gli ha dedicato un paragrafo nel suo libro Spettri della mia vita in cui sottolinea, oltre alla rilettura in chiave hauntologica della scena finale, l’innovativo approccio di un serie televisiva di fantascienza di giocare con l’elemento temporale, egli afferma: «L’anacronismo, lo slittamento di momenti temporali distinti in altri periodi, ha costituito in tutta la serie il più importante segnale di sfaldamento del tempo» (Fisher, 2019).

La questione di sfaldamento temporale è presente anche nella serie creata da Dan Harmon, Community. Questa condizione non è visibile su un piano meramente diegetico, o meglio, in alcuni episodi si nota molto quell’anacronismo di cui parla Fisher ma è proprio il distacco critico della serie che la rende estremamente interessante. La struttura narrativa di Community sembra aver appreso la lezione del passato permettendogli di creare una coraggiosa e brillante parodia postmoderna di certe soluzioni stilistiche antiquate.

Ritorniamo quindi alla questione del revival. La serie di Harmon presenta un’infinità di riferimenti alla cultura degli anni Ottanta; sarebbe faticosissimo individuare ogni minima citazione evitando di impazzire. Un episodio in particolare può offrirci, però, alcune chiavi di lettura per individuare il punto di contatto tra le due serie: Basic Rocket Science è chiaramente impostato come parodia degli space movies anni Ottanta e Novanta dove figurano chiari omaggi al film Apollo 13 (1995) e Uomini veri (1983).

Il preside della scuola vuole inaugurare l’anno con il “lancio” di un simulatore spaziale degli anni 80 (sponsorizzato dalla KFC) per entrare in concorrenza con la scuola avversaria. I nostri eroi vengono scelti dal preside per pulire il simulatore in pessime condizioni vista l’età ma, a causa di una svista da parte di uno dell’“equipaggio”, la macchina si attiva prima dell’inaugurazione costringendo gli studenti a terminare la simulazione. Il carattere parodico è molto evidente soprattutto nei dialoghi e in alcuni espedienti narrativi come il fatto che l’astronave - ricostruzione stereotipata di un simulatore spaziale vintage – viene trainata da un rimorchio dando l’impressione ai personaggi di essere realmente lanciati nello spazio.

A un certo punto, al termine della simulazione, la finestra che era rimasta sigillata dall’inizio si apre e, inversamente a quello che succede in Sapphire and Steele, i nostri protagonisti invece di ritrovarsi nel vuoto del cosmo si ritrovano sperduti nel bel mezzo della campagna, fuori dalla città, con tanto di mucca che muggisce vicino all’oblò. Ciò che sorprende non è tanto il luogo in cui gli studenti si trovano, ma l’aspettativa che si era creata fino a quel momento. I problemi che gli studenti devono affrontare all’interno dell’astronave sono mostrati in modo da creare una certa suspense nello spettatore che vuole capire dove si trovano una volta terminata la simulazione. Guardando questa scena lo sguardo dei personaggi e quello dello spettatore si sovrappongono: i protagonisti realizzano la scomoda verità di non stare partecipando attivamente ad un film degli anni Ottanta, così come crolla l’illusione dello spettatore di guardarne uno. Fisher afferma giustamente riguardo alla serie britannica: “[I protagonisti] Eternamente sospesi, prigionieri senza fine, bloccati per sempre in una situazione e con un’origine mai pienamente chiarite. La segregazione di Sapphire e Steel in quel vecchio caffè, nel mezzo del nulla appare profetica di una condizione più generale, in cui la vita continua ma il tempo si è in qualche modo fermato”. (Fisher, 2019) Queste righe descrivono, in parte, anche la condizione dei protagonisti di Community ma per i motivi opposti. Tutti loro sono inconsciamente consapevoli di essere “fuori dal tempo e dallo spazio”, il simulatore può essere tranquillamente associato al caffè di Sapphire and Steel in qualità di non-luogo in cui viene rivelata la verità. L’unica differenza è che il tempo per gli studenti non si è fermato ma prosegue all’inverso sotto forma di un doloroso viaggio nostalgico: se Sepphire and Steel non possono più uscire da quella capsula dispersa nel nulla, i personaggi di Community sembrano essere intrappolati dall’esterno verso l’interno dove fuori dalla loro capsula non c’è il vuoto ma il mondo Reale, realizzando tristemente che da quell’ astronave dovranno uscire prima o poi.


3. “He works in a nostalgia shop”. Il caso Woody Allen.


Un altro aspetto di questa Retromania, che vale la pena prendere in considerazione, è sicuramente quello della nostalgia. La nostra condizione attuale si avvicina moltissimo a quella del detective Scottie nel già citato Vertigo: noi non stiamo affrontando un vero e proprio lutto, non è più una questione di “morte dell’arte” o di un violento processo in cui c’è un impellente bisogno di rimodellare vecchi dogmi artistici in funzione del “nuovo”; la nostra libido rimane ancora legata a ciò che è scomparso rendendoci malinconici nei confronti del passato. Si parla dunque di nostalgia verso un qualcosa che non è né completamente vivo e né completamente morto. Il nostro interesse viene guidato verso un tempo fasullo che non ha niente a che vedere con il Reale sentendoci esattamente come Sapphire e Steel dopo aver scostato quella tenda nel bar.

Allora, a questo punto, dove può risiedere il problema? Perché ci sembra che il passato sia pieno di risorse rispetto ai tempi correnti? Da che cosa è generata questa nostalgia? Ovviamente non esiste un'unica risposta che esaurisca in modo soddisfacente questi interrogativi però, un buon punto di partenza, può essere la familiarizzazione con il concetto di colonizzazione temporale del tardo capitalismo.

Come abbiamo visto prima, attorno a noi è tutto un doppione, anzi, una serie di doppioni che ci impediscono addirittura di individuare la copia originale. Il neoliberismo, dopo aver raggiunto ogni angolo del pianeta, ha cominciato una vittoriosa campagna di monopolizzazione del tempo. Le epoche storiche ci vengono puntualmente vendute come vettori ideologici travestiti da spazi immacolati in cui tutto era perfetto, come veri e propri “tempi migliori” che nessuno ha mai visto veramente. Questa prospettiva è fortemente hauntologica se pensiamo al fatto che i fantasmi che infestano le nostre vite sono a loro volta spettri di epoche fortemente idealizzate.

Per fare un esempio concreto della dimensione nostalgica tipica di oggi sembra giusto tirare in mezzo, ancora una volta, l’industria cinematografica. Come affermavamo nel paragrafo precedente, non è una novità vedere in sala – o in salotto – film o serie tv che vengono esplicitamente marcate come “prodotti nostalgici”.

Questo però non preclude la possibilità di trovare una via d’uscita da questo loop: spesso, come abbiamo visto in Community, alcuni prodotti, perfettamente in sincronia con il fenomeno retromaniaco, risultano fuori posto. Facciamo riferimento, in questo caso, all’ultimo periodo di attività di Woody Allen, regista su cui vale spendere qualche parola in merito a questo tema.

Il caso del regista americano è molto interessante se ci si sofferma su alcuni particolari: la lunga carriera di Allen copre quasi sessant’anni di attività che vedono incredibili successi e flop clamorosi. La situazione si fa più interessante dopo il 2000, ovvero quando anche lui - regista che ha plasmato notevolmente l’immaginario cinematografico americano dagli anni Sessanta - inciampa nella trappola della nostalgia postmoderna: mi riferisco qui a Midnight in Paris (2011) e a Cafè society (2016) . La malinconia di Allen nei confronti del passato non è mai stata una novità – come dimostrano, per esempio, alcune sue ricorrenti soluzioni stilistiche come l’onnipresente musica jazz e l’immancabile stile retrò dei titoli di testa e di coda – anche se in questi due film la nostalgia è visibilmente dichiarata. Per usare le parole di Krystine Batcho, Allen si confronta con una nostalgia storica: ovvero una nostalgia che smette di essere personale o che riflette un proprio vizio estetico, ma un tipo di nostalgia universale che coglie la temperatura morale di un’epoca.

Soffermiamoci su Midnight in Paris, film che meglio evidenzia questa caratteristica. Spesso è stato erroneamente etichettato come una “sdolcinata e mielosa lettera d’amore a Parigi” ma in realtà nasconde una seria riflessione sul tema della nostalgia e sul suo rapporto con il presente.

Gil Pender (Owen Wilson), insoddisfatto del suo lavoro come “scribacchino” hollywoodiano, decide di dare una svolta alla sua carriera scrivendo un romanzo durante un soggiorno a Parigi insieme alla sua futura moglie. La situazione tra i due è critica a tal punto che, ogni sera a mezzanotte, Gil trova magicamente rifugio nella Ville Lumière degli anni Venti con tanto di feste e brindisi tra Fitzgerald e Hemingway.

Tutto il film è appositamente venduto come un’ode nostalgica ad una Parigi perduta, con tanto di vibrato del clarinetto di Sidney Bechet che accompagna una serie di pillow shots della città. Il problema è che la nostalgia di Gil non è fine a sé stessa, o meglio, gli eroi letterari che incontra durante il film non sono nient’altro che spettri evocati da un presente triste e insostenibile. Un aspetto che viene spesso oscurato quando si analizza il film è proprio il sottotesto psico-patolgico della condizione del protagonista.


All’inizio del film, un amico della fidanzata di Gil, lo accusa di soffrire della sindrome dell’epoca d’oro dicendogli che è una normale condizione di coloro che, non riuscendo ad affrontare il presente, devono rifugiarsi nel passato. Questo spiega perfettamente cosa sta succedendo al giorno d’oggi: Il passato esercita una tale forza nel nostro immaginario che ormai sembra aver sovrastato la nostra capacità di reagire. Gil, tutto sommato, vive passivamente questo magico anacronismo, senza interrogarsi seriamente su quello che succede, ma non perché ha paura di affrontare il presente, ma perché non vuole rinunciare ad un generale senso di sicurezza che pensa sia andato perduta tempo fa. L’ingenuità di Pender non riguarda tanto «la rinuncia del desiderio, ma il rifiuto di darsi per vinti. In altri termini, consiste nel rifiuto di adattarsi a ciò che le condizioni attuali definiscono “realtà” - anche se il prezzo di tale rifiuto finisce per farti sentire un reietto nella tua stessa epoca». (Fisher, 2019)

A differenza di Gil noi dobbiamo renderci conto che il tempo non ci appartiene più. Un punto di partenza per provare a riacciuffarlo è rinunciare a questa temporalità in quanto spettro. Rifiutare la nostra passività ritornando in possesso dei nostri desideri, e soprattutto, riuscire a comprendere che se scostiamo la tenda di questa gigantesca capsula non c’è lo spazio, ma il Reale con le sue immense contraddizioni.

di Luca Giardino




BIBLIOGRAFIA

  • Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, 2019.

  • Martin Hägglund, Radical Atheism: Derrida and the Time of Life, Stanford University Press, 2008

  • François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, il Saggiatore, 2014

  • Baker S.M., Kennedy P.F, Death By Nostalgia: a Diagnosis of Context-Specific Cases, 1994

  • Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, MInimum Fax, 2017.

  • Fredric Jameson, Postmodernism and Consumer society; in The Cultural Turn: Selected Writings on the Postmodern, 1983-1998, Verso, Londra, 1998.


VIDEOSAGGI

  • Jonas Čeika - CCK Philosophy, Hauntology, Lost Futures and 80s Nostalgia.

  • Zero Books, Ghosts of my life (No Future).

  • Zero Books, Frozen Capitalism: Haunted by Vaporwave

FILMOGRAFIA

  • Matinee (Joe Dante, 1993)

  • Forbidden Planet (Fred M. Wilcox, 1956)

  • Star Wars (George Lucas, 1977 - in produzione)

  • Vertigo (A. Hitchcock, 1958)

  • Stranger Things (serie tv, 2016 - in produzione)

  • Blade Runner 2049 (D. Villeneuve, 2017)

  • Pixels (C. Columbus, 2015)

  • Ready Player One (S. Spielberg, 2018)

  • Sapphire and Steel (serie tv, 1979 - 1982)

  • Community (serie tv, 2009 -2015)

  • The Right Stuff (P. Kaufman, 1983)

  • Apollo 13 (R. Howard,1995)

  • Café society (W. Allen, 2016)

  • Midnight in Paris (W. Allen, 2011)

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