Per una teoria della fine. Il mondo, Il tempo, Il soggetto.
- Entr'Acte
- 6 nov 2020
- Tempo di lettura: 14 min
Aggiornamento: 7 nov 2020
- Victor Hugo
Un mese fa è comparso a New York, sulla facciata di un palazzo di Union Square, il Climate clock: un'installazione ideata dagli artisti Gan Golan e Andrew Boyd.
Sette anni, questo il tempo che resta prima che la fine del mondo sia irreversibile.
La fine del mondo è un problema complesso, si innesta su piani differenti, non è solo minacciata la sussistenza ecologica delle soggettività umane e non umane, ma è immediatamente un problema politico, esistenziale, psicopatologico ed economico.
Come tale l’indagine sull’apocalisse si configura come una massa di scenari e prospettive differenti, senza gerarchie le varie discipline si innestano sul corpo apocalittico ritagliandone narrazioni e facendo sorgere dibattiti che ci sembra necessario indagare prima di passare a qualsiasi tentativo di produrre, non senza predecessori, un nuovo flusso di sapere sulla fine.
L’apocalisse, ci sembra, ha sempre tre caratteristiche, anche se non sempre coesistono nello stesso momento. Essa è un evento che riguarda il mondo, non è nel mondo, ha un tempo, infine riguarda qualcuno, la fine del mondo è sempre la fine del proprio mondo.
Questo elemento presuppone una vasta gamma di interpretazioni che hanno a che fare con le più disparate discipline. Ciò che interessa è comprendere il nesso tra le varie definizioni ed evidenziare le tracce che la complessità delle elucubrazioni sull’argomento si lascia alla spalle. Proponiamo quindi di suddividere la trattazione in modo da toccare questi tre punti.
IL MONDO.
Il pianeta.
La nostra visione del pianeta influenza in modo decisivo il corso d’azione da intraprendere nei confronti dell’imminente crisi climatica. Nel suo libro Introduction to compared planetology (2019) Lukáš Likavčan offre una dettagliata analisi dei modelli che compongono le principali visioni del pianeta prodotte nel corso della storia occidentale.
Le categorie di planetary, globe e terrestrial sono quindi dei dispositivi, fornendo una descrizione di quello che chiamiamo il pianeta, influenzano irrimediabilmente il modo storico di esistere dei soggetti che camminano sulla crosta terrestre, sotto di essa e nelle acque che compongono il nostro pianeta. Se la politica è chimica, la chimica è politica.
Ci sembra qui necessario proporre una breve sintesi delle principali categorie concettuali elaborate nel testo di Lukáš, privi dell’intento di sostituirci alla lettura in prima persona dell’opera in questione.
The planetary è il cosmogramma che presenta la terra come impersonale, in cui l’uomo gioca il ruolo di intermediario del processo geologico; prodotta dalla contemporanea ecologia e dai recenti studi di climate science. Studi sull’attività sismica, la condizione delle foreste, mappe sui processi di inquinamento, le immagini satellitari, sono quindi i dispositivi di astrazione parziale del pianeta che compongono il planetario.
The globe è un artefatto storico influente con cui il l’Occidentale ha prodotto un modo di percepire il mondo. Una genealogia della narrazione dell’occidentale geopolitica di stampo coloniale e degli stati nazionali. Il globo è il corpo senza organi, uno spazio omnidirezionale, senza attrito, è insieme la base e il prodotto del pensiero lineare incentrato sul progresso e della globalizzazione.
The terrestrial è il concetto derivato dalle ricerche di Latour, dove umani e non umani intrattengono un network di agencies e obbligazioni verso la la preservazione di un mondo vivibile. Il cosmogramma è quindi in diretta contrapposizione al modello proposto dalla globalizzazione. Lo spazio non è liscio, ma uno spazio politico fondato sullo stretto rapporto tra gli organismi e il loro ambiente.
Il pianeta però, a nostro modo di vedere, non esaurisce l’orizzonte molteplice dei mondi che possono finire, a rischio può non essere la vita nel suo assetto biologico e ecologico, la fine del mondo può riguardare la fine di un certo tipo di mondanità definito culturalmente: nelle parole di De Martino «La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli [...] che non che quella era la fine del mondo?» (De Martino, 1985). In questi casi la posta in gioco non è soltanto ecologica, ma comprende quel sistema complesso che lega la territorialità, la cultura e più in generale i modi di esistenza. Si può parlare qui a pieno diritto di fine del mondo, spogliato dunque dalle pretese universalistiche che questa nozione possiede nel dibattito attuale. Questi scenari però ci aprono una possibilità analitica esclusa dal discorso sulla fine del pianeta, abbiamo degli esempi di un dopo la fine, a questo proposito vorremmo proporre uno di questi dopo possibili.

il mondo spazzatura.
I rifiuti sono cose fuori posto, iperoggetti. Ci sono soggetti che si trovano a vivere in questa condizione di fuori posto. L’etnografo Christian Sørhaug ha studiato la società dei Warao, una popolazione indigena che vive presso il delta del fiume Orinoco (Venezuela). Tradizionalmente cacciatori e raccoglitori, appena dopo l’inizio del nuovo millennio inaugurarono una nuova pratica culturale. Un giorno, nel 2001, Ely, un giovane uomo Warao, e due suoi amici fecero ritorno dopo un’assenza di molti mesi. Avevano riempito fino all’orlo le loro canoe di scatoloni e sporte colmi di oggetti di ogni tipo. Gli abitanti del villaggio erano entusiasti. Nei giorni seguenti, andavano davanti alla casa di Ely per esaminarli. Molti di loro se ne tornavano con dei regali, perlopiú abiti recuperati in discarica. Ciudad Guayana si trova trecento chilometri a monte del villaggio Warao. È una città industriale in rapida espansione e, all’ultimo censimento, contava circa un milione di abitanti. La discarica di Cambalache è appena fuori città. Ci vuole circa una settimana per raggiungerla in canoa dal villaggio, e questo è esattamente il viaggio che avevano intrapreso Ely e i suoi amici. Il pellegrinaggio divenne presto pratica comune tra i Warao, che pianificano meticolosamente i loro viaggi e si allontanò per mesi prima di tornare, carichi di tesori. male». Alcuni Warao si sono trasferiti a Cambalache in pianta stabile. Vivono in case fatte di cartoni e pallet, tenute precariamente insieme da reti metalliche e un po’ di chiodi, con un fornello a cherosene e una latrina. Spesso trovano anche cose commestibili. Molti raccontano di come hanno trovato mezzi polli – «ed erano ancora caldi» – nelle confezioni perfettamente intatte delle catene di fast food. erano connessi al mondo tramite acqua, pesca e canoe, ora lo sono tramite cartoni, bottiglie vuote, abiti di scarto e vecchie radio a transistor. In una società di mercato, i Warao, consumatori non efficienti e scarsi contribuenti al Pil, sono diventati rifiuti umani, una popolazione superflua e in eccesso. Ma come abbiamo accennato all’inizio di questa trattazione chiarire il concetto di mondo non è sufficiente a esaurire le caratteristiche dell’evento apocalittico, ci accingiamo quindi a iniziare a trattare il secondo punto: il tempo.
IL TEMPO.
A una prima analisi ci sembra che il tempo nell’apocalisse si presenti in due modi distinti, anche se ogni tempo della fine non è che una mescolanza tra questi due che mai si distinguono di fatto, ma solo di principio. Pensiamo sia giusto suddividere l’argomento adottando i due modelli temporali come fossero puri che permettono di comprendere a fondo le varie sfaccettature del concetto di tempo e di fine.
Anzitutto essa avviene nel tempo, ha un quando, una data, un’ora: questo modello temporale pensiamo di chiamarlo “the clock”; in secondo luogo ogni fine occupa un certo intervallo di tempo, ha una durata, per quanto ci si immagini una catastrofe istantanea la si immagina sempre come occupante un certo lasso temporale.
The clock.
La fine ha una data che sembra presentarsi sempre come un conto alla rovescia. Dovendo il mondo finire in un giorno preciso x, the clock segna inevitabilmente il tempo nella forma y, dove y è il tempo impiegato per raggiungere la data x.
La storia non ci lascia privi di esempi di orologi di questo genere, lo stesso climate clock - con cui il saggio comincia - appartiene a questa categoria; ci limiteremo qui ad elencare due esempi che consentono di evidenziare il concetto di countdown: uno appartenente alla storia umana in senso stretto, l’altro alla produzione cinematografica.
Nel 1947, nel pieno della guerra fredda, appare sulla copertina del numero di Giugno di Bulletin of the Atomic Scientists un orologio stilizzato. Realizzato dall'artista Martyl Langsdorf (moglie del ricercatore del Progetto Manhattan Alexander Langsdorf jr), l’orologio sarebbe sempre stato presente sulla copertina del Bulletin a simboleggiare l'impegno dei suoi fondatori e dalla comunità scientifica per informare il pubblico e i leader politici mondiali riguardo al pericolo delle armi nucleari. Al termine della guerra fredda l’aria era diventata meno radioattiva e si decise dal 2007 di spostare le lancette dell'orologio tenendo conto anche di fattori ambientali. Le lancette dell’orologio scandiscono il tempo verso la fine, rappresentata dalla mezzanotte. Riteniamo interessante notare che il doomsday clock però non si comporta in tutto e per tutto come un orologio normale, questa è una caratteristica peculiare del modello the clock, nel quale le lancette si muovono sempre in avanti spostate dai meccanismi interni al cronometro. Qui le lancette si spostano anche all’indietro ed è quindi possibile, per così dire, “rimandare” l’apocalisse. Le lancette sono state in tutto spostate 22 volte e nel 2020 hanno raggiunto la massima vicinanza alla mezzanotte con appena 100 secondi prima dello scoccare dell’ora della fine.
Come secondo esempio pensiamo sia doveroso prendere in esame il lungometraggio di Lars von Trier, Melancholia. L’approccio estetico-filosofico del film si dimostra estremamente efficace nell’evidenziare alcuni elementi fondamentali che ci permettono di esaminare la questione della fine del mondo in quanto fine dell’uomo e del tempo stesso; come già acutamente evidenziato dall’antropologo Eduardo Viveiros De Castro «Melancholia non è semplicemente un intervallo o una crisi (l’incendio di un grattacielo, il naufragio di un transatlantico) [...] né un accidente inserito nella storia della civiltà occidentale [...] e nemmeno una parabola, come tante sull’estinzione dell’ Homo sapiens, ma una rappresentazione della fine della fine» (De Castro, 2017). Egli sottolinea, con queste parole, il grande impatto che un evento catastrofico - in questo caso la collisione del nostro pianeta con un ignoto corpo celeste - può avere su tutti gli eventi che caratterizzano e hanno caratterizzato la nostra storia. Il tempo dunque non si spegne gradualmente ma subisce una brusca interruzione, dopodiché non resta più nulla, solamente il nero dello schermo seguito dall'accendersi delle luci in sala.
Durata.
Il secondo aspetto che può assumere il tempo della fine è quello della durata: l’apocalisse occupa un certo tempo, avviene non solo nel tempo, ma è del tempo. Per quanto possiamo immaginare una fine istantanea, essa non può che essere una massa temporale unitaria i cui i singoli eventi che la compongono sono derivati dalla scissione da questa. Nel cavallo di Torino di Béla Tarr rintracciamo un esempio puro di questa temporalità apocalittica, la fine non è preannunciata da un conto alla rovescia, è già in atto. Come il vento, che in una scena del film vediamo in semi-soggettiva abbattersi su un albero scheletrico accompagnato da uno sciame di foglie morte, la durata della fine è unitaria, già attuale, ci circonda, non deve cominciare a soffiare. Il film non ci presenta nel modo classico la fine del mondo come un passaggio dallo stato normale all’apocalisse, né prende luogo dopo un evento apocalittico, ma racconta il processo della fine. Il mondo sta già finendo quando il film comincia.
«La fine del mondo per Tarr, non sarà uno spettacolo dantesco, ma una decadenza frattale e incrementale, una lenta e impercettibile scomparsa, così completa che giungerà a dissolversi di fronte ai nostri occhi indeboliti fino alla cecità. [...] Non è successo niente, siamo solo morti.» (De Castro, 2017)
IL SOGGETTO.
Infine siamo giunti a trattare l’ultimo aspetto che ci sembra rilevante per comprendere il concetto complesso della fine: il soggetto della fine, l’apocalisse riguarda qualcuno, sia nella misura in cui il mondo che sta finendo o deve finire è mondo di qualcuno, sia nel senso che a finire può non essere il mondo, ma il soggetto. A questo riguardo pensiamo che questi due modi producono due tipi di scenari distinti, per comprendere il primo ci sembra utile dare uno sguardo, seguendo i passi di De Martino alla psicopatologia, e quindi ci si occuperà della condizione del soggetto il cui mondo finisce, per il secondo caso il soggetto ci sembra essere il mondo, un mondo senza l’uomo per la precisione.

«Verso la fine del 1947 fu ricoverato presso l’ospedale cantonale di Münsingen (Berna) un giovane contadino di ventitré anni, che presentava un caratteristico delirio schizofrenico di fine del mondo. Tema di questo delirio era un mutamento peggiorativo e minaccioso del mondo, un dissestarsi radicale dell’ordine cosmico e di quello dei rapporti comunitari. Il mondo [...] era entrato in una crisi radicale a partire dalla precedente primavera, quando al malato era accaduto di sradicare alcuni arbusti, dando così, con questo suo atto colpevole, il primo avvio al processo di dissoluzione. Ma piú ancora la colpa del sinistro mutamento era da ricondurre al fatto che in autunno il padre aveva sradicato una quercia per venderla: dalla fossa rimasta nel terreno dopo lo sradicamento era sgorgata acqua che si era sparsa per la terra. Ulteriore atto colpevole che aveva dissestato il mondo, il malato riteneva fosse la rifazione della porta di ingresso alla fattoria paterna di cui era stata mutata la forma e il colore, introducendo in tal modo una rischiosa alterazione di rapporti fra la casa paterna, la porta e il resto del mondo. In particolare il sole non incontrava piú nel suo cammino diurno il vecchio portone, e ciò alterava il corso regolare del sole, il normale scorrere del giorno e illuminarsi della casa paterna. Il crollo del mondo, il franare del suo ordine, della sua domesticità e della sua abitabilità, si manifestavano altresí nel totale spaesarsi del paesaggio o nella irrespirabilità della sua aria: l’inabissamento della montagna, l’appiattimento della terra, il tramutarsi dell’aria in gas azzurro maleodorante completavano così il quadro catastrofico dell’arresto della vita vegetale e animale e della sospensione del lavoro produttivo umano. Questo sinistro precipitare del mondo verso il caos inoperabile coinvolgeva non soltanto il cielo e il suolo, ma anche il sottosuolo. Sempre a partire dallo sradicamento della quercia e dalla rifazione della porta della fattoria paterna, il suolo [...] andava sprofondando come fosse diventato in lungo e in largo cavernoso: e in questo spazio sotterraneo, raffigurato come regno dei morti, andavano precipitando i viventi, in cerca di suolo saldo sotto i loro piedi e invece sempre piú sprofondanti nel vuoto. Lo sradicamento della quercia aveva alterato anche l’ordine delle acque e dalla fossa lasciata dalla quercia sradicata defluivano acque che corrodevano il suolo e lo rendevano sempre meno stabile e andavano scavando un abisso sempre piú ampio. Su quanto avanzava di suolo saldo si muovevano dei viventi, ma erano già minoranza che diventava sempre piú esigua: la maggioranza, in continuo aumento, era ormai di sprofondati o di sprofondanti nel cavo mondo sotterraneo.» (De Martino, 2019)
Il Weltuntergangserlebnis ci sembra essere caratterizzato in modo specifico, illuminati dall’esempio psicopatologico, dal sentimento di perdita della normalità del mondo. Il contadino riporta spesso proposizioni che riflettono il non essere normale, ordinato, a posto, dell’universo che lo circonda. Il senso di spaesamento si connette inoltre a un paragone inevitabile con il “bel mondo”, se il mondo attuale non è ordinato prima lo era. Il paragone con il bel mondo ci sembra sempre sorgere in questi casi e ci sembra essere determinante per il sentimento di spaesamento. Anche nella situazione attuale, in cui il COVID-19 ha stravolto i nostri modi normali di esistenza, ci sembra che questo sentimento emerga spesso, sia nei discorsi comuni sul tema, sia nelle trattazioni di carattere più accademico come quelle di Agamben.
La percezione di “perdita della normalità”, dunque, scaturisce nell’uomo una sensazione di disorientamento nei confronti della realtà che abita. Spesso l’Occidente è stato teatro e propulsore di quelle che possiamo considerare catastrofi o tragedie, eventi che hanno provocato nel soggetto una particolare sensazione di “punto di non ritorno”.
Ciò che pensiamo sia interessante è quello che avviene dopo questi eventi: ovvero come la crisi modelli il nostro immaginario collettivo fino a creare la necessità di istituire veri e propri “anni zero” nella storia dell’uomo, far ripartire un mondo dopo la sua stessa fine.
In questo caso, pensiamo sia utile prendere in considerazione uno degli eventi contemporanei che ha plasmato maggiormente l'immaginario occidentale per quanto riguarda la nozione di crisi o fine del mondo: gli attentati dell’11 settembre 2001.
Lo spaesamento provocato da un evento così improvviso, e di una tale portata, ha rappresentato una vera e propria cesura nel mondo occidentale: «ciò che vi è di più terribile nell’11 settembre, ciò che rimane infinito in questa ferita, è che non si sà cos’è, non la si può né descrivere, né identificare e neanche nominare», con queste parole Jacques Derrida descrive un evento che va al di fuori di ogni orizzonte conoscitivo, un’orribile sorpresa che, secondo il filosofo Slavoj Žižek, rappresenta la materializzazione di un incubo incrementato dalle narrazioni catasrofiste americane diventando quindi insostenibile una volta avveratosi nella realtà (Žižek, 2002).
Un evento, dunque, inspiegabile che ha costretto i cittadini statunitensi ad attuare processi di autoanalisi, costringendoli a ripensare al loro passato e a fare i conti con il loro futuro.
Se ci affidiamo alla teoria del rispecchiamento lukácsiana, e dunque affermando che l’opera d’arte costituisca sempre una forma di rispecchiamento della realtà all’interno della quale viene prodotta, allora è possibile tranquillamente affermare che una serie televisiva come Lost, prodotta dall’ABC dal 2004 fino al 2010, sia un documento fondamentale per comprendere la temperatura morale della società americana post 9/11.
Ci siamo limitati in questa sede a prendere in considerazione alcuni caratteri di un’opera che, senza ombra di dubbio, meriterebbe più spazio d’analisi ma pensiamo sia necessario individuare alcuni elementi cardine.
Il contesto della narrazione è visibilmente una metafora del vissuto americano dopo l’attentato: l’incidente del boeing nel pilot e il naufragio del gruppo dei superstiti sull’isola è un chiaro riferimento non solo all'evento in sé ma anche a quella dimensione di lostness che permea l’intero continente dopo la tragedia. Il concetto più interessante è però, a nostro parere, la forte rimessa in discussione dei grandi valori della narrazione americana: Lost racchiude quei processi - già accennati - di autoanalisi in cui ogni personaggio «è costretto a interpretare una specifica ipotesi eroica, un possibile modello di eroe» (Alonge, Carluccio, 2015) così come deve fare i conti con un confine tra bene e male molto labile e ambiguo. I surreali ed inspiegabili eventi, che fanno da sfondo ai problemi di una comunità in condizioni estreme, sono i sintomi di una ferita che ha lacerato i comportamenti e gli atteggiamenti di un paese dominato da forti principi, un paese costretto a ridimensionare il proprio “credo” forzando l’immaginario collettivo a ristabilire un nuovo modello culturale indirizzato verso una dolorosa riconfigurazione sociale. «Quel che resta è, in fondo e in sintesi, il Lost del titolo» (Alonge, Carluccio, 2015), quel sentimento di spaesamento che ha colonizzato gli incubi e che dà vita alle incertezze del popolo americano trova anche spazio in molta della produzione artistica nazionale contemporanea.
Il secondo scenario, quello di un mondo senza di noi, rappresenta un vero e proprio paradosso pragmatico: siamo infatti costretti a inserirci in un mondo senza di noi per essere in grado di visualizzarlo. Opere come After Man (1981) e The world without us (2008) sono l’esemplificazione di un tale sforzo speculativo paradossale. L’antropocene ci costringe a pensare un mondo in cui l’uomo come specie non esiste più, dobbiamo scomparire perché un tale mondo possa apparire. La fantastica biodiversità diversificata e vitale dipinta da Dixon, nella sua favola speculativa, suona in realtà come una sentenza di morte. La storia dei soggetti non umani che compongono un mondo siffatto è la fine della storia umana.
Alla luce delle trattazioni precedenti ci sembra in qualche modo chiarito il problema della fine del mondo e si può finalmente iniziare ad abbozzare una soluzione al problema. Proponiamo quindi una narrazione alternativa e radicale in cui si rinunci alle categorie normalmente utilizzate per parlare della fine. Sulle orme di Wittgenstein dobbiamo lasciarci cadere alle spalle la scala utilizzata per arrivare fin qui.
Il mondo e il tempo, crediamo, debbano smettere di essere considerati come spazi oggettivi in cui il soggetto umano sarebbe immerso. Dovrebbero essere invece considerati nella matassa produttiva composta dai vari soggetti in gioco, siano essi umani e non umani, fatti di carbonio o di silicio. Un taglio quindi con le prospettive globalizzanti Kantiane e con l’eccezionalismo umano di Heidegger, un vero e proprio campo Geo-politico, nel senso più letterale che questa parola può assumere. Per dirla con le parole di De Castro: «antropomorfismo contro antropocentrismo» (De Castro, 2017), anzi di più perché tutto questo fisserebbe il divenire creativo delle varie specie in un discorso troppo umano. Con questo non si vuole cadere in un transumanesimo, non si deve cercare di superare l’uomo, ma lasciare scorrere i flussi nella loro rete complessa, nel loro intricato gomitolo, con i loro incontri e scontri, in uno spazio che non sia aperto e privo di ostacoli, ma che si strutturi proprio su questi stessi flussi. In ultima analisi l’uomo si configura, a sua volta, come creatore di mondi, non per eccellenza come vorrebbe la tradizione antropocentrica occidentale, ma uno degli attori del complesso sistema della terraformazione.
di Emanuele Mendozzi e Luca Giardino
APPROFONDIMENTO:
Bibliografia:
Alan Weisman, Il mondo senza di noi, traduzione di Norman Gobetti, collana Stile libero Extra, Einaudi, 2008.
Christian Sørhaug, Holding house in crazy waters: An exploration of householding practices among the Warao, Orinoco Delta, Venezuela, tesi di dottorato, dipartimento di Antropologia sociale, Università di Oslo, 2012.
Dougal Dixon, After Man: A Zoology of the Future, Granada Publishing, 1981.
Eduardo Vivieros De Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano 2017.
Ernesto De Martino De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino 2019.
G. Alonge, G. Carluccio, Il cinema americano contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2015.
G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003.
Lukáš Likavčan, Introduction to Comparative Planetology, Strelka Press, 2019.
S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Cinque saggi sull'11 settembre e date simili, Meltemi, Roma 2002.
Filmografia:
Il cavallo di Torino (A torinói ló, Béla Tarr, 2011).
Lost (serie tv 2004-2010).
Melancholia ( Lars von Trier, 2011).
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